Oltre ai dipinti antichi, la collezione Credem comprende una rara raccolta di opere di arte orientale, che idealmente si collega alla presenza al piano nobile del palazzo, alla fine del Settecento, di un gabinetto di arte orientale, che prendeva probabilmente a modello quelli della corte di Vienna (si pensi alla Vieux Laque nella reggia di Schönbrunn).
La raccolta copre un universo culturale assai vasto, sia sotto il profilo temporale, perché dal III millennio a.C. giunge alle soglie del Novecento, sia in termini di tipologie di oggetti e di provenienza geografica. Si tratta infatti di opere realizzate in smalti cloisonné, porcellana, bronzo e terracotta provenienti da Cina, Giappone, Mongolia, Birmania, Cambogia, Thailandia e in arte Gandhara, sviluppatasi nel Pakistan settentrionale e in Afghanistan.
CINA
L’arte cinese costituisce il nucleo più consistente della raccolta ed è rappresentata da pezzi antichissimi come l’elegante Calice neolitico in ceramica nera, databile intorno al 2500 a. C., mentre all’epoca della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) risale il Cavallo baldanzoso in terracotta policroma, che nella resa naturalistica e vitale dell’animale che nitrisce è un bell’esempio di arte funeraria di origine aristocratica. La presenza di questi cavalli tra i beni deposti nel corredo funebre contribuiva ad esaltare il prestigio del defunto.
Di grande rilevanza è la presenza di due statue di Dignitari della dinastia Tang (618- 907 d. C.), in terracotta, di altezza quasi al naturale (fig. 1). L’appartenenza delle due figure al ceto dei funzionari è chiarita dalla tavoletta che reggono tra le mani, indicativa del loro rango, che, come si conveniva a corte, ciascuna delle due figure mostra tra le mani cerimonialmente portate davanti al petto. Inoltre i due dignitari indossano il copricapo riservato ai funzionari civili e una lunga veste formale dalle ampie maniche, che lascia scoperta la punta delle scarpe con applicazioni “a tre lobi”, del tipo usato a corte nelle occasioni ufficiali. Queste due magnifiche opere, che conservano ancora tracce della policromia originale, furono realizzate con la tecnica della terracotta lavorata a stampo, che caratterizza anche i guerrieri dell’esercito di terracotta nel mausoleo del primo imperatore cinese Qin Shi Huangdi (260 a. C. - 210 a. C.) a Xi'an, l’antica capitale, una delle più spettacolari creazioni dell’arte cinese.
Una coppia di slanciati vasi funerari decorati con complesse applicazioni tra le quali si libra, avviluppandosi al collo, un drago volante tra nuvole, proviene da uno dei più noti centri manifatturieri della porcellana in Cina: quello delle fornaci di Jingdezhen, nella bassa valle del fiume Chang. I due vasi appartengono all’epoca della dinastia Song (1127- 1279), sconfitta da Kublai Kahn, l’imperatore presso la cui corte fu accolto Marco Polo e del quale abbiamo molte notizie grazie al suo straordinario resoconto, Il Milione, scritto tra il 1298 e il 1299.
Appartengono invece alla successiva dinastia Ming (1368- 1644) due notevoli bronzi dorati di grandi dimensioni, riflesso della religione buddista. Agli anni tra la fine del Quattrocento e l’inizio del secolo successivo risale il Bodhisattva Maitreya (fig. 2), il prossimo Buddha (successore di Siddharta, il Budda storico), del quale è attesa la rinascita.
Il Bodhisattva è raffigurato con le gambe incrociate nella postura di meditazione e sul suo petto è incisa la svastica, che significa l’"infinito" presente nella coscienza di un Buddha, ragione per la quale si trova all’altezza del cuore. Il volto, evoca il sereno atteggiamento della contemplazione ed è incorniciato da una capigliatura arricciata, incoronata da una tiara recante l’immagine di Buddha ripetuta cinque volte.
Ugualmente legato alla religione buddista è anche l’altro grande bronzo con il Kalika, uno dei seguaci del Buddha vicini al completo e definitivo risveglio. La figura è riconoscibile dalla coppia di orecchini di grandi dimensioni sorretti nelle mani, a lui donati da esseri celesti semidivini.
All’importante gruppo di fornaci di Longquan, un altro grande centro di produzione ceramica cinese fino all’inizio del Cinquecento, appartiene poi un grande Piatto (XIV- XV secolo) decorato a incisione da un singolo arbusto di peonia in fiore, realizzato in céladon, una spessa invetriatura lucida color verde oliva, ottenuta grazie alla riduzione del ferro in fase di cottura (fig. 3).
Allo stesso periodo risale anche la coppia di fermarotolo (zhou in cinese, fig. 4), in bronzo dorato con decoro a smalti cloisonné, utili alla corretta conservazione dei rotoli dipinti. I due zhou sono particolarmente preziosi, essendo la decorazione a smalto cloisonné riservata a manufatti destinati ai ceti più abbienti della società. La tecnica esecutiva era molto complessa, poiché prevedeva, innanzi tutto la creazione del motivo decorativo prescelto con una “rete” di fili di bronzo; all’interno degli incavi formati dai fili (in francese cloison) erano poi spennellate paste di polvere di vetro miste a ossidi metallici che,
con una cottura in forno a 800 °C, fondevano e si vetrificavano. Infine, a cottura ultimata, si esaltava la lucentezza degli smalti con un’accurata e vigorosa lucidatura. Con questa tecnica complessa e raffinatissima sono realizzati, oltre ai fermarotolo, anche due Bruciaprofumi databili al regno dell’imperatore Qianlong (1736- 1795).
Risale invece già all’epoca della dinastia Tang (618- 907 d. C.) la produzione della porcellana dura, quel particolare tipo di ceramica che si ottiene a partire da impasti con presenza di caolino e con una cottura a temperature tra i 1300 e i 1400° C. La prima testimonianza scritta in Europa relativa alla porcellana risale al Milione, nel quale Marco Polo, descrivendo la città di Tiungu disse che vi si producevano “le più belle scodelle di porcellana del mondo”.
A partire dalla stessa epoca arrivarono in Europa i primi oggetti in questo prezioso materiale attraverso la Persia, l’Egitto, Costantinopoli e Venezia, ma la sua composizione rimase a lungo un mistero e la porcellana divenne un prodotto di altissimo lusso, destinato alle collezioni reali o ai tesori delle grandi cattedrali. Con l’avvento della dinastia Ming (1368-1644) aumentò la produzione e la diffusione di porcellana, che con la smaltatura bianca e blu divenne celebre in Europa.
Nel Seicento la Compagnia olandese delle Indie Orientali riuscì infatti a stabilire accordi per importare la porcellana cinese sino a detenerne il monopolio, stabilendone il commercio a Delft e influenzando così anche la ceramica per cui quella città è ancora oggi famosa. A partire da quel momento la porcellana si diffuse nelle classi agiate e divenne oggetto di uso quotidiano anche grazie al diffondersi in Europa delle bevande in tazza quali tè, caffè e cioccolata.
La porcellana con il tipico accostamento del bianco e del blu è rappresentata in collezione Credem da un grande Vaso da giardino (fig. 5) ornato da due draghi, simboli dell’imperatore, in atto di inseguire una “perla luminosa”, che indica la continua ricerca di saggezza. Era una raffigurazione di buon augurio rivolta all’imperatore Jiajing (1522- 1566), destinatario del raffinato oggetto. Appartiene invece alla dinastia Qing (1644- 1911) il vaso blu a decoro bianco dove sono raffigurate scene di vita quotidiana, databile al regno dell’imperatore Kangxi (1662- 1722).
È a partire dal regno di quest’ultimo che è possibile distinguere le porcellane in varie “famiglie” a seconda del colore degli smalti utilizzati in prevalenza nella decorazione (ad esempio verde, rosa, giallo, nero). La denominazione con la quale distinguiamo ancora oggi le differenti “famiglie” della porcellana fu coniata però solo nel 1862 da Albert Jacquemart e Edmond Le Blant, nel volume intitolato Histoire Artistique, Industrielle et Commerciale de la porcelaine.
In collezione Credem la “famiglia verde” è rappresentata da due notevoli Leoni o cani di Fo (fig. 6) dell’epoca dell’imperatore Kangxi (1662-1722). La raffigurazione di coppie di leoni risale IV- V secolo, quando una coppia di leoni compariva spesso ai lati del trono del Buddha, ma in tempi successivi, e in particolare sotto le dinastie Ming e Qing, i leoni presero l’aspetto di alcune razze di cani di origine sino-tibetana, dai grandi occhi tondi e dal pelo lungo. È proprio sotto questa forma che l’immagine dei leoni compare sulle porcellane, anche quelle esportate in Occidente, prendendo il nome di “cane di Fo” (Fo è il termine che indica il Buddha in cinese).
Nella coppia della collezione Credem il maschio tiene sotto la zampa sinistra sollevata una palla, mentre l’esemplare femmina, nella stessa posizione, ha sul fianco destro un cucciolo in atto di arrampicarsi su di lei.
La “famiglia rosa” è invece rappresentata da una coppia di eleganti vasi a tromba (fig. 7), dalla forma cilindrica, dell’epoca dell’imperatore Qianlong (1736-1795). È ormai assodato che gli artisti cinesi abbiano appreso le formule chimiche per creare il rosa dai Gesuiti europei. Presso la corte dell’imperatore Kangxi (1662- 1722) vivevano infatti numerosi missionari occidentali, dei quali il sovrano apprezzava le conoscenze in ambito scientifico e artistico. Furono quindi i Gesuiti a trasmettere la ricetta per ottenere il “rosa di Cassio”, così chiamato poiché tradizione vuole che sia stato messo a punto dal fisico olandese Andrea Cassius di Leida intorno al 1650.
Nella collezione sono inoltre comprese numerose altre tipologie di vasi, tra i quali un meiping (regno dell’imperatore Yongzheng, 1723-1735), dall’imboccatura stretta e dalla forma ovoidale, la cui funzione era ospitare un ramo fiorito di pruno (fig. 8), e un esemplare “a doppia zucca”, del periodo dell’imperatore Qianlong (1736-1795): il recipiente presenta la forma di una zucca (hulu in cinese) che si restringe al centro (fig. 9). Essiccato, l’ortaggio fungeva da fiasca per liquidi; come contenitore per l’elisir di lunga vita e attributo di uno degli immortali taoisti, Li Tieguai, la zucca stessa era considerata un simbolo di longevità.
Di una tipologia differente è invece il vaso “hu”, la cui forma rotondeggiante permetteva una notevole capienza ed era quindi destinato alla presentazione di offerte sacre di frutta e cereali (fig. 10).
Come già accennato, dal Seicento le manifatture di porcellana cinese, oltre al mercato interno, iniziarono a destinare una parte consistente della loro produzione all’esportazione. Alcune delle porcellane più apprezzate in Europa a partire da quell’epoca, fu la categoria nota in Occidente come “blanc de Chine”, dal raffinato colore bianco, prodotta dalle fornaci di De Hua, nella provincia di Fujian. Appartiene a questa tipologia la piccola statua raffigurante la divinità buddhista Guan Yin (fig. 11) sulle acque dell’Oceano.
Divinità dall’infinita misericordia, Guan Yin accoglieva le preghiere umane e in particolare, come dispensatrice di fecondità, era invocata dalle madri desiderose di prole.
Non fu quindi difficile per i maestri di De Hua prendere a modello questa divinità, con piccoli accorgimenti, per realizzare statuine raffiguranti la Madonna, destinate in minima parte alla devozione dei pochi cristiani cinesi e, nel maggior numero, al più appetibile mercato occidentale.
Un’altra tipologia di porcellana, la cosiddetta chine de commande, veniva prodotta su commissione e sulla base di modelli in ceramica o in legno inviati dall’Europa per essere copiati dagli artigiani cinesi. Questo tipo di produzione è attestata dal versatoio (fig. 12) a forma di girale, risalente al regno dell’imperatore Yongzheng (1723-1735), il cui modello deriva da esemplari di arte rococò francese, diffusa tra fine Seicento e inizio Settecento.
Rispondono al gusto europeo, soprattutto nella loro forma slanciata ed elegante, anche altri due versatoi della prima metà del Settecento (fig. 13), che poggiano su belle basi di fattura occidentale in bronzo dorato. In Europa si era infatti diffusa la moda di dotare i vasi cinesi di montature in argento, o più spesso in bronzo dorato, realizzate a volte su disegno di famosi decoratori: lo scopo era quello di esaltare la bellezza e la preziosità degli oggetti in porcellana e di armonizzarli con gli altri arredi.
La raccolta del Credem spazia dunque nelle forme dell’arte cinese arrivando al primo Novecento con una delle opere più recenti, il notevole piatto dipinto, del diametro di 64 centimetri, con il decoro giallo su fondo blu raffigurante il dragone che insegue la perla. Questo prezioso manufatto conduce alla fine dell’arte cinese di epoca imperiale, perché reca sul retro la marca dell’ultima imperatrice, Cixi (1835- 1908).
Birmania, Cambogia, Giappone, Mongolia, Thailandia e arte del Gandhara
Oltre alla raccolta di arte cinese, la collezione Credem comprende anche alcuni pezzi provenienti da altre culture asiatiche.
L’arte birmana è infatti rappresentata da due teste di Buddha, una in pietra colorata a lacca rossa (XVII- XVIII secolo), in stile di Ava, più volte capitale delle genti Shan a partire dal 1364 fino al 1841, l’altra più tarda (XIX secolo), in stile Mandalay, dal nome della seconda città della Birmania. In entrambe le raffigurazioni Buddha è raffigurato con l’uṣṇīṣa, la protuberanza sul cranio simbolo della sua suprema illuminazione. Lo stesso segno distintivo caratterizza anche la testa di Buddha in bronzo proveniente dalla Thailandia (XIV secolo) e quella in pietra, appartenente in origine a una statua di notevoli dimensioni, in arte del Gandhara (IV secolo). I tratti regolari e “grecizzanti” del volto di quest’ultima raffigurazione di Buddha illustrano lo sviluppo dell'arte che prende il nome dalla regione dell'alto fiume Indo, tra gli attuali Afghanistan e Pakistan.
Nel Gandhara e nelle regioni limitrofe sino ai confini dell’Asia centrale, la cultura ellenica, presente dall’epoca delle spedizioni di Alessandro Magno nel sec. IV a.C., si sposò infatti con elementi indiani, iranici e locali per esprimere un messaggio legato alla vita e all’insegnamento del Buddha, spesso raffigurato secondo le caratteristiche del dio Apollo nell’arte della Grecia classica.
Le tre sculture khmer della collezione Credem, in arenaria, forniscono invece un esempio dell’arte sviluppatasi ad Angkor (sec. IX-1431), l’antica capitale dell’impero Khmer, oggi il sito archeologico più importante della Cambogia. Il tempio più conosciuto dell’intera area è il famoso Angkor Wat, considerato il più vasto edificio religioso del mondo.
Allo stile di questo fastoso tempio, eretto tra il 1113 e il 1150 durante il regno del re Suryavarman II si lega la solenne Testa di divinità (fig. 14), caratterizzata da un sorriso lievemente abbozzato e dal copricapo a forma di cono con decorazioni inciso che rende riconoscibile il soggetto come uno degli dei del pantheon hindu. Risalgono allo stile del Bayon, l’ultimo tempio di stato edificato nel sito di Angkor (fine XII- XIII secolo), il Frammento di frontone con figure oranti, un alto rilievo di notevole fattura e la Testa di demone, parte di una statua di grandi dimensioni.
Proviene invece dalla Mongolia la statua in bronzo dorato raffigurante il Lama Changka Rölpe Dorje, rappresentato con le gambe incrociate in “postura di meditazione” e con la mano destra rivolta verso l’alto nel “gesto di insegnamento”. L’effigiato fu un maestro molto stimato dall’imperatore cinese Quianlong (regnante tra il 1736 e il 1796), che lo elesse come suo consulente spirituale.
L’arte giapponese è poi rappresentata nella raccolta da due raffinati oggetti in porcellana, un Piatto e una Terrina con coperchio (fig. 15), risalenti alla fine del Seicento e legati al periodo Edo (1603- 1868), la lunga fase della storia del Giappone in cui la famiglia Tokugawa detenne il massimo potere politico e militare nel paese. Questo momento storico prende il nome dalla capitale del regno, Edo, ribattezzata Tokyo nel 1869. Entrambe le opere sono eccellenti esemplari della produzione giapponese di bianco e blu (sometsuke in giapponese) a imitazione di modelli cinesi, destinati all’esportazione in Occidente. Notevoli possibilità per le manifatture di porcellana giapponese si presentarono infatti dopo l’avvento in Cina della dinastia Qing (1644-1911), quando a seguito di una serie di conflitti interni i forni di Jingdezhen vennero distrutti, avvenimento che comportò una ridotta produzione fino al 1683. Di questa fase di stallo dell’attività cinese approfittarono le manifatture giapponesi della zona di Arita, che furono in grado di soddisfare le ingenti richieste dei mercanti europei. I vasai giapponesi predilessero l’accostamento “bianco e blu” e si ispirarono ai motivi decorativi tipici dell’arte cinese, come risulta evidente in particolare dalla Terrina con coperchio, sulla quale sono raffigurati draghi in volo all’inseguimento della “perla luminosa”, mentre sul coperchio compare, a forma di presa, il cane o leone di Fo.
Riferimenti bibliografici:
Barigazzi, I Guicciardi, Reggio Emilia 1986.
Le collezioni artistiche del Credito Emiliano. Storia del palazzo Spalletti Trivelli di Reggio Emilia, a cura di F. Bonvicini, Cinisello Balsamo 2010.